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Due anni di Dampyr
di Daniele D’Aquino
Il
mito
del
vampiro
è
stato
affrontato
in
tutte
le
salse
da
letteratura
e
cinema,
da
Bram
Stoker
ad
Anne
Rice,
da
Friedrich
Murnau
a
Francis
Ford
Coppola,
e
anche
il
fumetto
in
passato
non
è
risultato
immune
al
fascino
dei
principi
delle
tenebre.
Il
rischio
di
vedere
cose
trite
e
ritrite
era
molto
alto
e
forse
per
questo
mi
sono
avvicinato
alla
serie
con
qualche
perplessità.
Già
dai
primi
numeri
però
i
miei
dubbi
in
merito
sono
caduti
e
ora,
a
due
anni
di
distanza,
il
bilancio
è
più
che
positivo. Boselli
e
Colombo
sono
riusciti
a
tenersi
lontano
dagli
stereotipi
dell’immaginario
collettivo
alimentati
dai
film
e
dai
romanzi,
puntando
invece
sulle
radici
storiche
ed
etniche,
sul
folclore
e
sulle
leggende
popolari
che
accompagnano
il
mito
di
queste
creature
mostruose,
di
cui
si
erano
già
mostrati
appassionati
nel
“Manuale
del
vampirologo”,
apparso
nel
1993
sull’Almanacco
della
Paura
e
ora
riproposto
in
terza
di
copertina
riveduto,
corretto
e
ampliato.
Certo,
ci
sono
anche
elementi
più
classici,
come
la
luce
del
sole
letale
per
i
non-morti,
ma
non
c’è
dubbio
che
Dampyr
affronti
il
tema
del
vampirismo
in
maniera
assolutamente
innovativa,
a
partire
dal
protagonista,
Harlan Draka,
figlio
di
un
Maestro
della
Notte
e
di
una
donna. Accanto
a
lui,
a
formare
un
trio
affiatato,
ironico
e
dinamico,
due
comprimari
ben
tratteggiati,
l’ex
soldato
Kurjak
e
Tesla,
una
grintosa
non-morta
che
combatte
dalla
parte
dei
“buoni”.
Harlan
e
compagni
vengono
arruolati
in
questa
squadra
della
legge
e
da
quell’albo
in
poi
Caleb
diventerà
il
loro
committente,
incaricandoli
di
due
tipi
di
missioni:
quelle
in
cui
dovranno
uccidere
un
Maestro
della
Notte
(le
più
numerose)
o
quelle
in
cui
dovranno
indagare
su
eventi
oscuri
(come
“Dalle
tenebre”,
magnificamente
illustrato
da
un
Genzianella
in
stato
di
grazia). All’interno
delle
singole
storie
si
vanno
delineando
due
filoni
narrativi,
uno
riguardante
la
fantomatica
organizzazione
di
Caleb
Lost
(qual
è
la
sua
origine?
E
il
suo
ruolo?
Quello
di Nikolaus?
E Nergal?),
l’altro
inerente
al
rapporto
tra
Harlan
e
suo
padre,
di
cui
abbiamo
saputo
un
po’
di
più
nella
trilogia
dei
numeri
20,
21
e
22
ambientata
in
Transilvania. Le
basi
per
sviluppi
futuri
avvincenti
ci
sono
tutte... Qualitativamente
parlando,
gli
albi
finora
pubblicati
si
mantengono
su
livelli
alti,
merito
di
sceneggiature
solide
e
trame
coinvolgenti
in
perfetto
equilibrio
tra
horror
e
azione.
E
qui
entrano
in
ballo
i
disegnatori,
in
grado
di
far
rivivere
al
lettore
le
stesse
emozioni
e
le
stesse
sensazioni
che
si
vivono
visitando
realmente
i
luoghi
descritti.
Le
architetture
dettagliate
e
i
paesaggi
suggestivi
ricreano
magicamente
l’essenza
delle
varie
zone
del
pianeta
in
cui
di
volta
in
volta
si
svolgono
le
avventure
dei
tre
cacciatori
di
vampiri. La
maggior
parte
degli
albi
sono
stati
realizzati,
oltre
ai
già
citati
Luca
Rossi
e
Genzianella,
dai
talentuosi
Majo
e
Dotti;
completano
lo
staff
Torricelli,
Baggi,
Andreucci,
Piccininno,
Casini
e
tra
pochi
mesi
si
aggiungerà
l’ex
leddiano
Bocci. Con
artisti
come
questi
ai
pennelli
è
inutile
sottolineare
che
ogni
numero
rappresenta
un
vero
piacere
visivo
e
che
i
disegni
sono
uno
dei
punti
di
forza
di
Dampyr. E
quali
sono
i
punti
deboli
della
serie?
Non
molti,
però
qualche
difetto
c’è.
Partiamo
dalle
copertine;
Riboldi
non
sembra
a
suo
agio
come
cover-man
e
molte
sue
prove
non
convincono
per
colpa
di
personaggi
legnosi
e
inespressivi
e
colorazioni
discutibili.
Va
dato
atto
però
ai
due
sceneggiatori
dell’impegno
profuso
per
diversificare
i
vari
epiloghi
ed
evitare
così
fastidiosi
dejà
vu. Inoltre
c’è
il
rischio
che
la
frequente
struttura
“Caleb
commissiona-i
tre
indagano-Harlan
uccide
il
vampiro
di
turno”,
alla
lunga
possa
stancare.
Questo
non
si
è
ancora
verificato,
grazie
al
mestiere
e
alla
fantasia
di
Boselli
e
Colombo,
che
stanno
gestendo
molto
bene
il
gioco
dei
ruoli
tra Harlan,
Tesla
e Kurjak,
e
che
hanno
adottato
espedienti
originali
come
quello
di
“Casa
di
sangue”,
disegnato
da
un
Baggi
sempre
più
bravo
e
visionario. Concluderei
con
un
piccolo
“difetto”
grafico,
che
ho
evidenziato
anche
lo
scorso
mese
nell’articolo
su
Magico
Vento
e
che
mi
dà
lo
spunto
per
rivolgere
un
appello
alla
trimurti
Bonelli-Canzio-Zardo:
perché
le
coste
degli
albi
sono
di
colore
diverso
una
dall’altra,
rendendo
la
collezione
una
raccolta
variegata
che
attraversa
tutto
lo
spettro
cromatico?
E’ un metodo per vivacizzare gli scaffali? (18/03/2002)
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