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Wolverine di Claremont / Miller di Fabio Volino
Probabilmente il mito del mutante canadese ha avuto origine da qui, con questa miniserie datata 1982. Intendiamoci, non è che prima fosse stato solamente un personaggio monodimensionale, anzi, grazie all’ apporto di Byrne divenne ben presto molto più che il semplice membro rissoso degli Uomini X ed acquisì una personalità sfaccettata ed una maturità interiore prima quasi del tutto assente. Con questa storia, però, il tutto divenne ancora più marcato ed ulteriormente descritto. E’ la storia che ha sancito un carattere fondamentale di James/Logan: quello di samurai rinnegato, senza un vero e proprio padrone e sempre in cerca di una nuova battaglia e di non perdere il proprio onore di guerriero. Ma è anche un uomo che sa amare e rispettare profondamente una donna: nello specifico l’indimenticabile Mariko Yashida, forte d’ animo quanto e forse più di lui, che sa sobbarcarsi sulle sue spalle il peso di una pesante eredità, quella della propria famiglia in sfacelo, e riportarla agli antichi splendori, anche a costo di sacrifici personali. Chris Claremont è qui al suo meglio: probabilmente l’ unico sceneggiatore ad aver colto il vero spirito di Wolverine, lo trascina in una lotta che non è solamente fisica, ma soprattutto interiore, volta a placare la bestia che è dentro di lui e che aspetta sempre di emergere. Una battaglia che è anche una questione d’ onore, che lui porta avanti nel rispetto del proprio avversario (sentimento non ricambiato, ma è proprio questo che distingue Logan, eroe atipico ma pur sempre eroe, dai suoi avversari). A dimostrazione che questo sceneggiatore, quando ha un disegnatore con cui si sente a suo agio, riesce a limitare la sua proverbiale verbosità (vi sono addirittura pagine prive di dialoghi e questo credo sia veramente una cosa eccezionale), a realizzare graficamente questa miniserie è stato nientemeno che Frank Miller. Intendiamoci, il Miller degli esordi, che a quell’ epoca iniziava ad allontanarsi dalle influenze derivate da Jack Kirby e Gene Colan per cominciare a delineare un suo particolarissimo ed inimitabile stile. Ne risulta dunque un tratto in certi punti acerbo, ma mai affrettato e comunque piacevole da vedere. L’unico peccato è che non sia stato premiato da una decente inchiostratura. In sintesi un’ opera che può ben definirsi miliare, per ciò che ha rappresentato, rappresenta e rappresenterà. Non se ne fanno più di questo tipo, ormai.
(17/2/2003)
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