![]() |
![]() |
|
|
|||
Violenza e censura di Daniele D’Aquino
E’ un tema spinoso, in cui è facile cadere nella retorica, nei falsi moralismi e abbandonarsi a giudizi superficiali; un tema di cui si è parlato tanto, spesso in modo fazioso, confuso, disinformato. Per
avere
allora
un
quadro
il
più
preciso
ed
esaustivo
possibile
di
tutta
la
vicenda,
meglio
prenderla
alla
lontana
e
partire
dagli
Stati
Uniti
bacchettoni
e
maccartisti
degli
anni
’50,
dove
si
scatenò
una
famigerata
campagna
contro
gli
horror
comics,
considerati
diseducativi
e
devianti.
Nel
1954,
sotto
la
pressione
del
Senato
e
dell’opinione
pubblica,
fu
istituito
il
Comics
Code
Authority,
un
organo
di
controllo
preventivo
(tuttora
operante),
che
all’epoca
vietò
di
mostrare
scene
truculente
ed
eccessivi
spargimenti
di
sangue.
Riviste
come
“Tales
from
the
Crypt”,
“The
haunt
of
fear”
e
“The
vault
of
horror”
(gli
storici
EC
Comics,
ricordati
anche
dal
Re
Stephen
King
nel
suo
saggio
Danse
Macabre),
tutte
edite
da
quel
pioniere
del
fumetto
splatter
che
fu
William
M.
Gaines
e
che
sulle
loro
pagine
ospitavano
storie
cruente
e
raccapriccianti,
furono
costrette
a
chiudere
i
battenti. Ma
anche
in
Italia
le
cose
non
andavano
meglio,
complici
le
forti
ingerenze
del
mondo
politico
e
di
quello
clericale. Per
evitare
la
censura
governativa,
alcuni
editori
tra
cui Bonelli,
adottarono
dal
1961
un’autocensura
conosciuta
come
“Garanzia
Morale”,
certificata
dal
marchio
MG
sulla
copertina
degli
albi. L’effetto
immediato
di
questa
qualità
etica
da
rispettare
si
palesò
sulle
pagine
di
Tex,
dove
furono
edulcorati
situazioni
e
linguaggi
violenti
e
furono
ricoperte
le
donne
troppo
discinte,
ritocchi
poi
eliminati
nelle
successive
ristampe.
Comunque
già
a
partire
dagli
anni
Settanta,
con
il
mutare
del
contesto
storico
e
sociale,
le
cose
migliorarono
e
le
maglie
della
censura
si
fecero
sempre
meno
strette.
Da
allora
si
verifica
ancora
qualche
denuncia,
soprattutto
da
parte
di
associazioni
dei
genitori
(è
di
pochi
anni
fa
il
processo,
conclusosi
con
un’assoluzione,
contro
alcuni
autori
dell’Intrepido
accusati
di
oltraggio
alla
morale
e
ancora
più
recenti
le
polemiche
riguardanti
alcuni
volumi
della
Topolin
Edizioni),
ma
in
generale
il
vento
inquisitorio
degli
anni
’50
e
’60
si
è
notevolmente
placato. Merito
dei
tempi
che
cambiano,
certo,
ma
anche
dei
moralisti
che
hanno
spostato
le
loro
ostili
attenzioni
dalle
nuvole
parlanti
ai
videogiochi. I videogiochi hanno raggiunto ormai la perfezione figurativa, diventando dei veri e propri simulatori di realtà: motori grafici sempre più potenti in grado di gestire centinaia di migliaia di poligoni, texture particolareggiate, animazioni fluide, intelligenze artificiali sempre più intelligenti, effetti di antialiasing, lens-flare e trasparenza, fenomeni atmosferici resi alla perfezione, luci e ombre calcolate in tempo reale. E
violenza.
Violenza
realistica,
parossistica,
politicamente
scorretta. Ricordate
il
clamore
che
accompagnò
l’uscita
di
giochi
come
Carmageddon,
Resident
Evil
e
Hitman:
Codename
47?
Ultimamente
sui
banchi
d’accusa
c’è
“Mafia:
The
city
of
lost
heaven”,
in
cui
impersoniamo
un
ragazzo
che
inizia
la
sua
carriera
all’interno
di
un’organizzazione
malavitosa,
portando
a
termine
missioni
sempre
più
difficili,
salendo
così
lungo
la
scala
gerarchica
mafiosa.
Per
i
detrattori
quindi
il
rischio
di
traviamento
e
di
emulazione
è
ancora
più
alto.
E
veniamo
allora
al
nocciolo
della
questione:
videogiochi
e
fumetti
sono
socialmente
pericolosi? Sui
giornali
spesso
appaiono
titoli
del
tipo
“Uccide
il
fratellino
imitando
un
eroe
dei
fumetti”
o
“Ragazzo
spara
al
vicino
dopo
aver
giocato
alla
Playstation”.
Negli
Stati
Uniti
è
stata
intentata
una
causa
contro
diverse
software
house
dalle
vittime
della
strage
alla
Columbine
High
School,
dove
qualche
anno
fa
due
ragazzi
appassionati
di
Doom,
uccisero
13
persone
a
colpi
di
pistola. Ma
allora
sono
veramente
pericolosi!
E’
vero
che
le
notizie
a
volte
sono
gonfiate
da
un
certo sensazionalismo,
con
i
giornalisti
che
nella
foga
sdegnosa,
sentenziale
e
preconcetta,
omettono
o
mettono
in
secondo
piano
particolari
che
alla
fin
fine,
beh,
certo
non
sono
poi
così
importanti:
genitori
drogati
e/o
alcolizzati,
armi
lasciate
incustodite,
ambiente
sociale
disagiato
e
amenità
simili.
Ma
non
sono
certo
queste
quisquilie
ad
essere
il
movente
di
simili
gesti.
Certamente
è
meglio
incolpare
videogiochi,
fumetti,
televisione,
Eminem,
Marylin
Manson,
piuttosto
che
ammettere
le
responsabilità
sociali
e
familiari. Altrimenti
a
cosa
servono
i
capri
espiatori? Allora,
ripeto
la
domanda:
videogiochi
e
fumetti
sono
pericolosi? Sociologi
e
psicologi
si
spaccano,
si
accavallano
studi
scientifici
più
o
meno
accreditati
che
prima
assolvono
e
poi
accusano.
A
chi
credere?
Guardiamo
in
faccia
le
cose.
Ci
sono
soggetti
più
deboli,
bambini
che
vivono
in
condizioni
difficili,
in
cui
un
videogioco
o
un
fumetto
violento
possono
fare
da
innesco.
Possono
essere
una
concausa
di
azioni
folli.
Una
concausa,
ma
niente
di
più. E
solo
nei
soggetti
a
rischio. Allora
è
colpa
dei
videogames
e
dei
fumetti
oppure
di
chi
non
tutela
proprio
figlio
da
giochi
e
letture
che
il
più
delle
volte
sono
destinati
ad
un
pubblico
adulto? Al
massimo
ciò
che
si
può
rimproverare
ad
alcuni
prodotti
estremi,
è
la
ricerca
dello
scandalo
e
dello
shock
come
mezzo
pubblicitario,
spesso
per
compensare
una
carenza
qualitativa.
A
volte
si
scende
nel
cattivo
gusto
unicamente
per
scopo
promozionale:
è
il
caso
del
numero
di
febbraio
di
Alan
Ford,
in
cui
si
ritraeva
una
situazione
simile
a
quella
di
Novi
Ligure
oppure
del
videogame
Hooligans,
dove
impersoniamo
i
famigerati
tifosi
(teppisti)
inglesi. E
in
fondo
poi
videogiochi
e
fumetti
non
sono
altro
che
lo
specchio
della
società:
se
la
società
è
violenta
non
è
colpa
loro. (11/06/2002)
|
||||||
![]() |
![]() |