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Gianfranco Manfredi a cura di Stefano Perullo
Questa settimana il salottino virtuale di AmazingComics.it ha l’onore di ospitare uno dei personaggi più versatili del Comicdom nostrano: Gianfranco Manfredi, il papà, solo per citare la sua ultima creazione di Magico Vento. Benché sia più che convinto che tu non abbia assolutamente bisogno di presentazioni che ne diresti, tanto per rompere il ghiaccio, di parlarci un po’ di te?
Ho 53 anni e sono nato a Senigallia (Ancona) vivo a Milano da quando ne avevo otto. In teoria avrei dovuto fare il professore di Filosofia , materia in cui mi sono laureato. Sono rimasto due anni in Università, dopo la laurea, come ricercatore. Mi imbarazzava molto fare gli esami agli studenti visto che solo due anni prima io gli esami li interrompevo (come militante del Movimento Studentesco). E fare ricerca, me ne resi subito conto, era un’impresa disperata che bisognava pagarsi di tasca propria, nessuna assistenza da parte dell’Università. Così, siccome nel frattempo mi ero affermato come cantautore e intendevo lavorare nel cinema come sceneggiatore, decisi di dare le dimissioni. Più tardi, negli anni 80, cominciai a scrivere romanzi che andarono molto bene e mi appagavano di più anche sul piano umano, essendo arcistufo di girare l’Italia con la chitarra. Il mio passaggio ai fumetti è stato piuttosto recente, nemmeno dieci anni fa, ma il mio amore per i fumetti viene da lontano. Ne sono sempre stato appassionato lettore, anche di quelli non bonelliani, ovviamente.
Spulciando il tuo “curriculum” professionale è possibile scorgere moltissime esperienze differenti: romanziere, paroliere, sceneggiatore per il cinema e la tv, musicista, ecc … Come mai hai deciso di dedicarti anche alla sceneggiatura di un genere letterario sottovalutato da molti e considerato al più destinato ad un pubblico di bambini come i Fumetti?
Come ho detto, sono sempre stato un lettore di fumetti. La mia esperienza di sceneggiatore cinematografico mi ha insegnato molto, anche cose abbastanza amare: e cioè che in Italia si possono fare quasi esclusivamente film comici o commedie. Io sognavo di poter scrivere cinema di genere (western , horror, fantascienza) ma quando arrivai a Roma, alla fine dei 70 e all’inizio degli 80, ormai il cinema di genere degli anni 60/ 70 era morto. Così solo nei fumetti, anni dopo, ho potuto riversare le mie irrealizzabili idee cinematografiche.
Quando, quasi sei anni fa, fu annunciata l’uscita di Magico Vento, gli strilli pubblicitari ponevano l’attenzione sull’inusuale connubio tra western ed horror. Con il passare del tempo, a mio avviso, le avventure strettamente horror sono diminuite, mentre ha assunto peso sempre maggiore l’interesse verso la storia del West. La mia impressione è che inizialmente si puntò molto sulle tematiche occulte per attrarre i lettori più giovani poi, alla lunga, sono emerse le tue vere intenzioni, oppure, citando Berardi, il personaggio ha assunto vita propria ad ha intrapreso una direzione del tutto nuova rispetto ai propositi originali?
Ho appena finito di scegliere le tavole per la mostra di Magico Vento che debutterà a marzo (primo week end) a Napoli, per poi girare per tutta Italia. Il criterio è stato quello di scegliere una tavola per numero. Così mi sono reso conto (e tutti potranno vederlo) che l’horror in realtà ha accompagnato tutta la serie, forse in certi episodi è stato meno in evidenza che in altri, ma fin dall’inizio io avevo avvertito i lettori che l’horror in MV andava inteso più come ingrediente che come scelta obbligata di genere. Fin dal principio volevo fare della serie un mix di generi diversi, anche per non isterilirla in un cliché. Ken Parker è un fumetto che ho sempre apprezzato molto, ma non è stato mai una fonte d’ispirazione per me perché le mie matrici cinematografiche e letterarie sono parecchio diverse da quelle di Berardi. Diciamo che lui è più “classico”, io amo frugare anche nei generi minori, e spesso persino nell’immondizia. Per me fa testo questo splendido verso di De André: “dai diamanti non nasce niente, dal letame nascono i fior”.
MAGICO VENTO è stata battezzata in un periodo di enorme dinamicità della Sergio Bonelli Editore; in pochi mesi le nostre edicole si popolarono di molte testate e di molti nuovissimi personaggi. Come mai tu hai deciso di dedicarti ad un genere come il Western, un genere che da molti anni sia dal punto di vista cinematografico che da quello fumettistico (basti pensare alla triste fine di Ken Parker) era considerato defunto?
Avevo prospettato a Bonelli due progetti differenti: MV, appunto, su cui meditavo da anni, ma che non consideravo (al di là del mio amore per il western) molto commerciale visto il declino del genere western presso le giovani generazioni, e un’altra serie di eroic fantasy un po’ sul genere de il Signore degli Anelli, serie di cui avevo progettato già una cinquantina di episodi e dunque era in stato di elaborazione più avanzato. Penso però che Bonelli non abbia neanche letto questo secondo progetto, perché non ama il genere fantasy. Mi disse comunque che aveva già in cantiere una serie fantasy: Brendon. Non c’entrava assolutamente nulla con il mio progetto, ma non avevo alcun motivo per insistere. Buttarsi di nuovo nel western era una scelta molto più coraggiosa, e a me piacciono le missioni impossibili. Credo che MV abbia dimostrato che l’impresa non era poi così impossibile, che si poteva dire qualcosa di nuovo anche in un genere così maledettamente codificato, e che si potevano anche raggiungere molti lettori giovani e persino quel pubblico femminile che al western è sempre mancato. Resta il fatto che se la maggioranza dei lettori più giovani non avesse prevenzioni rispetto al western (purtroppo invece ne ha, eccome) ,MV avrebbe un pubblico almeno doppio. Quelli che si fanno convincere dagli amici a leggere MV poi diventano i nostri lettori più entusiasti, ma per convincerli a provare ce ne vuole…
Quando lessi il primo numero di MV rimasi un po’ deluso dal fatto che Ned non fosse un “nativo americano”. La tua è stata una precisa scelta narrativa, stabilita durante la gestazione del personaggio, oppure ti è mancato un pizzico di coraggio editoriale?
E con quale faccia avrei potuto raccontare un nativo americano non essendolo? Il mio estremo rispetto per la loro cultura, mi ha impedito di impossessarmi del loro” punto di vista”. Se lo avessi fatto avrei rischiato di finire in quel gran calderone new age che gli indiani d’America guardano con fastidio. Sono giustamente gelosi del loro patrimonio e voglio raccontarlo loro, nei modi più consoni. Apprezzano che gli altri si avvicinino alla loro cultura, ma apprezzano anche di più se sono onesti e chiariscono di vederla attraverso il proprio “filtro”. Questo non significa che non si possa più scrivere un Sandokan, però un malese credo che si farebbe delle matte risate a leggere Salgari. Queste cose avevano senso fino alla metà del novecento. Oggi la Cina la raccontano i cinesi, il “nostro” Fu-Manchu al confronto è un personaggio improponibile, e se un regista occidentale pensasse di poter scrivere e girare dei kung fu movie farebbe ridere i polli ( in qualche caso è anche accaduto). Insomma, non è una questione di coraggio, ma di rispetto. Io sono uno che si è avvicinato alla cultura nativa e ne è rimasto affascinato, ma posso raccontarla solo dal mio punto di vista. Del resto, Ned è un personaggio “doppio”: un sioux adottivo da un lato, e un bianco dall’altro. Sta cioè in una posizione di equilibrio, o se vogliamo di meticciato che mi interessa di più delle presunte “purezze”. In un’epoca in cui la rivendicazioni etniche ci mettono poco a diventare “fondamentalismo” io credo sia più fertile l’incrocio tra le culture.
Ho un’altra curiosità … forse banale … come mai Ned ha il volto di Daniel Day Lewis?
Ned è un personaggio molto mobile e cangiante. Daniel Day Lewis come attore lo è al punto che tra un film e l’altro si stenta persino a riconoscerlo. Allo stesso tempo il suo volto esprime una grande intensità psicologica. Basta vederlo per capire che quell’uomo ha dei pensieri e una sua vita interiore. Di Schwarzenegger (che magari ce l’avrà anche) non lo si direbbe. Dal punto di vista fisico il personaggio di Ned ha preso anche qualcosa da Keanu Reeves. E’ flessibile. Volevo un personaggio che si differenziasse dai modelli di John Wayne, di Clint Eastwood, insomma dal classico “duro” del west. Qualcuno che facesse a cazzotti molto di rado, più agile che robusto, e , ripeto, che potesse incuriosire anche per la sua psicologia e i suoi conflitti interiori.
Parlando con altri appassionati di MV (complimenti, ne conosco davvero molti!) ho notato che c’è una corrente di pensiero abbastanza diffusa che ritiene che tu possa esprimerti al meglio in un formato editoriale simile a quello adottato per Julia. Ritieni sia vero? Prima o poi ti cimenterai in un formato extra long (magari in uno speciale)?
In un primo tempo in effetti si era valutato di fare episodi più lunghi, però questo ci avrebbe messo in grave difficoltà sul piano pratico, avendo cominciato la serie con pochissimi disegnatori. Ancora oggi siamo sottodimensionati e visto che siamo giustamente esigenti sul piano della qualità, non vogliamo sacrificarla aumentando la produzione al di là delle nostre possibilità di gestirla. D’altro canto a me piace molto il ritmo rapido. A volte mi trovo a dover sacrificare qualcosa, a contrarre qualche sviluppo e qualche finale, però un disegnatore o sceneggiatore americano (talmente famoso che non ne ricordo il nome) ha detto che nei fumetti la cosa più importante sono gli spazi bianchi tra vignetta e vignetta. E’ lì che entra in gioco la fantasia del lettore e la sua libera elaborazione dei suggerimenti seminati lungo la storia. Nella mia esperienza di lettore di fumetti mi è sempre capitato di saltare le pagine dove non succedeva niente oppure si trascinava il racconto inserendo scenette puramente riempitive. Col tempo mi sono accorto che moltissimi lettori facevano come me: saltavano le pagine mosce o troppo ovvie. Così mi sono detto: perché non saltarle in scrittura? Il bello dei fumetti non è sempre stata la sintesi? Tra il rischio di sbrodolare e quello di tagliare troppo, in fumetto preferisco il secondo. Nei romanzi è diverso: lì contrarre troppo è un pericolo assoluto. Tuttavia anche nei romanzi quando arrivo alla redazione finale, taglio sempre decine di pagine.
L’aspetto che maggiormente mi piace di MV è la perfetta commistione di generi. In pochi numeri riesci ad affrontare un contesto storico realista o un’avventura indiana intrisa di mistero e leggenda. A quali fonti attingi per documentarti riguardo contesti narrativi così differenti?
Alle fonti originali. Pochissimo cinema in realtà, anche perché è mia ambizione raccontare il west che il cinema non ha raccontato se non di rado. Dunque, molte autobiografie ottocentesche, memoriali, cronache, leggende native, e una scrupolosa documentazione visiva dei luoghi e degli ambienti evitando i soliti scenari visti e stravisti della Monument Valley.
MV è una collana che parla con gran rispetto degli usi, dei costumi e delle tradizioni degli indiani d’America. Hai avuto qualche riconoscimento per questo tuo grande rispetto per la cultura dei nativi?
Sono in ottimi contatti con i rappresentanti italiani delle organizzazioni native, e una riserva del Montana ci ha anche chiesto i numeri di MV per insegnare l’italiano ai ragazzi. Poi abbiamo un manipolo di lettori che studiano, molto seriamente, le culture indie e ci esprimono sempre il loro apprezzamento, segnalandoci anche eventuali imprecisioni, pur consapevoli del fatto che un fumetto non può essere un trattato antropologico.
In una tua recente intervista rilasciata al mensile SCUOLA DI FUMETTO ho letto che un tuo desiderio sarebbe quello di creare una collana che, seguendo gli insegnamenti di Andrea Pazienza, si inserisse in un contesto narrativo italiano ed affrontasse tematiche “quotidiane”. Perché ritieni che questo plot si potrebbe rivelare una scommessa vincente? Credi che riuscirai prima o poi a coronare questo progetto?
Chissà…al momento e ancora per parecchi anni, MV assorbirà ogni mia energia. Il tempo in più che riesco a ricavarmi, lo dedico al cinema (scrivo ancora delle sceneggiature, anche se in misura minore rispetto a un tempo) e ai romanzi (uno ogni due anni è il mio ritmo). Non potrei scrivere un’altra serie oltre a MV. Resto però convinto che sia un errore che tutti gli autori (anche i nuovi) si mettano a battere le strade dell’avventura. La vita quotidiana dovrebbe avere più spazio. Anche il genere “rosa” e la “commedia” si possono affrontare in modo nuovo e con aperture “visionarie” (come insegnano i manga che in genere vengono imitati pedissequamente standardizzandone i disegni, e vengono totalmente trascurati nel loro più profondo contenuto narrativo). Ma viviamo una strana schizofrenia. Ai fumetti in Italia si concede quella spettacolarità che (per motivi di costi e di mancanza di coraggio) il nostro cinema si nega, mentre la commedia (alla Mary Perkins, tanto per fare un esempio fumettistico) oggi pare debba essere competenza esclusiva del cinema o peggio del cinema per la TV e delle sit-com. Questo credo che allontani dal fumetto molti potenziali lettori delle nuove generazioni che preferiscono godersi la spettacolarità al cinema, mentre si ritrovano delusi perché lo stesso cinema o la televisione non parlano quasi mai di loro, della loro vita, dei loro specifici problemi in quanto l’unico vero protagonista della commedia televisiva è il nucleo famigliare.
Qual è il tuo metodo di lavoro? E, se ne hai una, come è strutturata la tua giornata lavorativa tipica?
Comincio a lavorare dopo pranzo, in genere sulla base degli appunti presi durante la notte. Costruisco la storia a partire da uno stimolo visivo e di ambiente, o da qualche spunto che ho colto qua e là leggendo e poi digerito con calma e fuso con altri. Il plot non ha mai rappresentato un problema per me. Negli ultimi anni tendo a partire dalla creazione dei personaggi e non dalla storia. Se si pensa prima alla storia, poi si rischia di produrre solo personaggi funzionali al racconto e di poco spessore psicologico. Se invece si parte dai personaggi, poi si racconta la storia più adatta a mettere in luce le loro caratteristiche.
Quando scrivi, lo fai con il chiaro intento di rivolgerti ad un pubblico oppure scrivi per te stesso?
Da molti anni, forse da sempre avendo cominciato come cantante, non separo le due cose. Penso però che un’eccessiva concentrazione su se stessi rischi di limitarti visto che il compito principale di un narratore è raccontare gli altri (e raccontarsi attraverso gli altri). Chi dice: io scrivo solo per me, in genere è uno spudorato mentitore, perché se poi nessuno legge quello che scrive è il primo a restarci male.
Prima di salutarti, vorrei porti un'ultima domanda: quale consiglio ti sentiresti di dare a chi vorrebbe intraprendere la carriera di sceneggiatore?
Leggere molto e tradurre. La traduzione insegna, oltre che a impadronirsi delle tecniche degli altri, a seguire un racconto parola per parola, con una grande attenzione ai dettagli, e educa alla concretezza del lavoro. Ci si può illudere che basti avere delle idee, ma il punto fondamentale è saperle esprimere e prima ancora, saperle analizzare. Spesso quando si mette in pratica l’idea, si scopre che quell’idea che ci sembrava all’inizio così luminosa, era invece vaghissima e imprecisa. La classica melodia improvvisata che si canta facendosi la barba, poi va realizzata con delle armonie, altrimenti resta una canzone-da-barba. Un esercizio che raccomando sempre agli aspiranti sceneggiatori è quello di riscrivere la stessa scena in tutte le possibili versioni che ci vengono in mente. Si può scoprire che basta un dettaglio, un’inquadratura, una battuta di dialogo a cambiare completamente il senso della scena, a indirizzare il suo impatto emotivo da una parte o dall’altra. Chi scrive deve sempre avere in mente non solo quello che in teoria ha deciso di raccontare, ma tutte le varianti e gli arricchimenti che possono migliorare lo spunto di partenza, o dirigerlo in direzioni nuove e impreviste, sorprendenti anche per chi scrive.
Credo proprio che sia tutto! Grazie!
(18/3/2003)
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